domenica, febbraio 06, 2011

nel triangolo inscritto

-Il lato più breve-

Il freddo semplificava un po' le cose, ed era bello anche per questo. Bisognava stare fermi, per meglio sopportare la forza del vento, per meglio opporre il proprio corpo alla pesantezza dell'aria fredda. Decidemmo di non stringerci, non sembrava la cosa più naturale da fare, e non la facemmo. Facevamo finta di ridere, o meglio cercavamo di fingere che quelle risate non fossero amare. Certe cose vanno sempre fatte in una stazione, dove il rumore del treno ti rende scomodo, ti mantiene sempre viva nella mente quella sensazione di non appartenenza a quel luogo, un luogo dove si transita soltanto e dove niente vi appartiene. Che sollievo. L'estraneità è quasi una gioia in giornate come quelle, fredde e limpide come il vetro, lontane come solo l'inverno sa essere. Era già da un po' che non ascoltavo più, il freddo mi sembrava l'unica cosa reale, ed era bene così. In fondo la conoscenza del perché rende tutto senza significato. Di tanto in tanto ridevo, alzavo gli occhi e respiravo forte, lei si fermava a guardare i binari, poi sorrideva ed inseme chinavamo il capo come ad accompagnare la risata. Parlavamo di cose senza senso, senza importanza, bastava dire delle parole, l'importante era solo quello: il suono di ciò che si diceva, non il suo significato. Ci sentivamo giovani, essendo lontani. Avevo fame, ma non lo dissi, me ne vergognai come un bambino, pensai che avrei mangiato meglio da solo, che dopo sarei stato molto meglio solo. Non mi curavo di cosa lei pensasse, non ero lì per lei ne lei era lì per me, eravamo solo dove dovevamo essere, nel freddo che ci teneva uniti, insieme, lontani, sereni. Decisi di non fare domande, di non chiedere niente, nessuna spiegazione, sarebbero state troppo serie ed avrebbero prodotto una discussione troppo seria. In quel momento dare importanza a qualcosa sarebbe stata una condanna, dover ammettere qualcosa una cattiveria inutile, non potevamo sopportarlo, non ne avevamo la forza ne la voglia o l'animo, eravamo vuoti, pieni solo del vento, un vento freddo che voleva quasi giustificare la nostra presenza, non avevamo altri obblighi verso noi stessi ne verso quel luogo, non avevamo altro da fare se non stare lì. Fui stranamente contento che non piovesse, il celo poco nuvoloso mi rasserenava, con la pioggia si sarebbe perso tutto: il freddo, la panchina, i treni e persino il loro rumore; la pioggia avrebbe coperto tutto rendendolo uguale a noi, lo avrebbe riempito come riempiva noi, ci avrebbe fatto appartenere l'un l'altro ed insieme a quel luogo, a quel giorno che non doveva essere di nessuno, tanto meno il nostro. Mi guardava poco, preferiva le rotaie o il celo, tal volta si fermava sulle persone, si voltava solo per sorridere, chinava il viso e si copriva un po' il naso, io restavo fermo guardandola di lato, mi voltavo spesso indietro ma restavo comunque a guardarla. In quel momento avrei desiderato avere il vizio del fumo, una sigaretta fra le dita, il gesto ripetitivo del fumare, l'odore sgradevole, l'accendino che non funzionasse bene. Guardai una donna col cane, piccolo e chiaro, simpatico, la guardammo insieme, provai un po' di nostalgia ma non capii bene perché. Aspettammo che si allontanasse seguendola con lo sguardo, poi ci guardammo senza sorridere. Socchiusi cli occhi ed alzai un po' la testa facendo un lungo respiro, che mi gelò i polmoni, poi le sorrisi. Lei era seria. Ci alzammo ed uscimmo lenti dalla stazione. Quel lungo tratto lo percorremmo mano nella mano.

-Il vertice opposto-

C'erano troppe persone in quella stanza, anche se sembrava quasi non ce ne fosse nessuna. Dal tavolo si alzavano fumi di sigaretta che mi davano un po' fastidio agli occhi, ma feci finta di non badarci, ero l'unico che non fumasse e non mi andava di alzarmi. Bevevo, piano, quasi per ammazzare il tempo, per tenermi occupato mentre guardavo senza vedere la partita che si svolgeva stanca a quel tavolo. Avevo finito di giocare ed era ormai troppo tardi per rientrare. Pazienza, pensai, fra un po' ce ne saremmo andati comunque tutti. Lei si tolse le scarpe lamentandosi, piegò le gambe sulla sedia e comincio a massaggiarsi i piedi. Le sorrisi, lei mi rispose con una smorfia, sorseggiai quello che avevo nel bicchiere.

“Ti farei un massaggio” le dissi, “ma...”

“Lo so, non ti piace toccare i piedi delle persone...figurati.”

Mi sorrise, ma la voce era lontana, o almeno a me sembrava così, che in fondo è la stessa cosa. Finì quello che avevo nel bicchiere e lo posai, di fronte si chiacchierava, ma non mi sembrava interessante. Qualcuno propose di fare un giro in centro, io pensai che camminare in strada col freddo mi avrebbe fatto bene, ma avevo mal di testa e volevo stare da solo. Si parlava di cosa fare, io non risposi, mi sarei defilato e avrei camminato un po'. Lei mi guardò un attimo poi disse

“Non posso camminare, mi fanno troppo male i piedi....”

“Lo so... peccato”

Mi venne in mente un ricordo, di almeno 15 anni prima, un ricordo insignificante, scolorito, che non credevo nemmeno di avere, una cosa stupida di quando ero un ragazzino. È curioso come poi ti vengano in mente certe cose, del perché, se mai ci fosse, in un preciso momento ed una precisa immagine che riaffiora, senza preavviso, senza alcuna volontà, senza nessun legame con quello che stai facendo o vivendo. O forse è quello il gioco, il voler trovare per forza un legame, per forza un perché, senza pensare che forse siccome sono due momenti della tua vita sono legati per forza, sei tu il legame, quello che sei, che dipende sempre da quello che eri in quell'immagine che ricordi. Bisognerebbe solo accettare le cose per quello che sono, che non dipende affatto da quello che siamo noi. Mi sorpresi ad essere lieto per quell'immagine, ad essere divertito dal ricordare persone che non vedevo più, né avrei mai più rivisto in seguito. Le cose vecchie della vita a volte sembrano oggetti da mettere su di un tavolino, certamente inutili, ma è come se ne sentissi la mancanza quasi senza saperlo. Non volli dare nessun significato a quel ricordo, in fondo non ne hanno mai, né quando nascono né quando rivengono alla mente. Il tempo non ci appartiene affatto, non possiamo capirlo, non possiamo dominarlo, non possiamo accettarlo. In questo i ricordi sono una truffa, un espediente per credere in qualcosa, in quello che siamo stati, per convincerci che c'eravamo da qualche parte, che ne valeva la pena. Ma non è vero, i ricordi non sono mai sinceri, sono l'aspetto delle cose che ci piace vedere. Il più delle volte sono una consolazione, ed è il massimo che possiamo sperare. Il mal di testa mi distraeva, cominciava a farsi troppo insistente, il dolore mi innervosiva e cominciavo ad essere impaziente. Dovevo fare qualcosa che mi aiutasse a dimenticare quel dolore, e non c'era niente in quella stanza che sembrava fare al caso mio, anzi tutte quelle presenze quasi amplificavano il mio nervosismo, ovattavano l'aria e la facevano pesante. Mi alzai tentando di mantenere un'aria indifferente per nascondere il dolore, lei mi guardò e comprese tutto. Si alzò senza mettersi le scarpe e mi venne dietro nella stanza, mi porse un bicchiere pieno per metà con un sorriso, fui contento ed un po' mi rasserenò. Sorseggiai lentamente, lei mi rimase di fronte con un sorriso lieve, luminoso, bello come una carezza, come una mano calda. Mi sentii meglio e le fui grato. Posai il bicchiere e presi la giacca, la guardai per un po', poi le baciai la fronte carezzandole i capelli, salutai tutti e scesi in strada. Il freddo mi faceva bene, il silenzio dell'ora tarda fu un sollievo. Camminai per un bel po' prima di decidere dove andare. Mi fermai e mi appoggiai ad un lampione, presi il cellulare e scorsi la rubrica con calma. Chiamai un vecchio amico che da giorni mi ero ripromesso di sentire. Gli raccontai molte cose, poi ripresi a camminare.

-Il terzo lato-

Si termina sempre in una stazione. L'aria non era neanche troppo fredda. Avevo il desiderio di toccarla con la punta delle dita, le mie dita calde ed il suo viso un po' freddo, ma me ne vergognai e non lo feci. Lei forse lo capì ma non fece niente. Il malessere è come una bugia alla quale non riusciamo a credere, il ricordo costante di ciò che in qualche modo abbiamo perso. Ha la stessa natura del tempo e non è vero che passa, spesso ci si abitua soltanto. E lo si ripone in disparte, proprio come un ricordo, tanto che col tempo ne dimentichiamo persino il perché, ci rimane solo quel piccolo sentimento, come uno spillo nella pelle. Io rimasi con le mani strette in tasca, quasi a volermi reggere a quello spillo, a volermi aggrappare a quel malessere al quale mi ero abituato già da troppo. Non ebbi la forza di tirarle fuori. Forse avrei preferito non dover parlare, rimanere in balia dei rumori delle altre persone e guadarla, guardarmi mentre la guardavo, guardarla mentre mi guardava. Guardarla per il solo gusto di tenerla negli occhi, per come la vedevo limpida e bella mentre mi sorrideva, per riuscire a credere che era lì perché c'ero io così come io ero lì perché c'era lei. Mi sarebbe bastato, almeno per un po', e forse sarebbe bastato anche a lei. Ma non ne fui in grado, non riuscii a farmelo bastare, a spegnere il pensiero come sapeva fare lei. Peccato. Come sono crudeli a volte le parole, con la loro verità, il loro peso sui nostri volti, le espressioni, a voler spiegare chi siamo, tolgono il respiro agli occhi, al guardare, al silenzio che spesso ci consola. Parlammo per un po' di cose futili, come se fosse normale. Ridevamo leggeri, o almeno sembrava, ma non c'era differenza, non per noi. Cercavo di non avere ricordi, volevo riempirmi solo di quella stazione, di quei rumori, delle persone che andavano e venivano, delle parole leggere che dicevamo, dei sorrisi, di lei che si toccava il naso, dei suoi capelli, di me che mi lisciavo la barba. Che cosa stupida in fondo. Come se tutto potesse poi servire a qualcosa, tutte quelle parole che ci saremmo detti, alle quali poi avremmo creduto, tutti i miei pensieri, le sue spiegazioni, le mie reazioni ed i suoi sorrisi. In quel momento avrei voluto saper credere, smettere di capire e credere, solo quello, senza pensieri o ragioni, senza domande, solo credere. Mi guardai le mani, lo feci senza pensarci, osservai i palmi aperti e gli anelli, la linea delle dita e le unghie un po' lunghe, le linee della pelle. Tutta la mia sicurezza in quelle mani, nelle mie dita, nelle mie unghie. Richiusi i palmi lentamente e le rimisi in tasca, lei mi stava guardando forse un po' incuriosita e con un sorriso flebile negli occhi. Non riuscii a sorriderle. Ci raggiunse una voce alle spalle, una vecchia amica, più sua che mia. Allegra ci venne incontro salutandoci, si abbracciarono, io la salutai con un cenno ed un sorriso. Parlavano e ridevano, intanto cominciammo a fare qualche passo. Io mi tenni un po' indietro per guardarle meglio, per guardare lei mentre chiacchierava di cose che non mi riguardavano. Lei che rideva. Volevo tenerla il più possibile negli occhi, nello sguardo, volevo vederla. Mi sentii un po' solo, e fu un sollievo, come un lungo respiro, guardarle da lontano. Mi guardai intorno, mi venne in mente una vecchia canzone che canticchiai, avrei voluto sentirla nell'aria. Ma mi accontentai di ricordarla. Continuai a stringere le mani in tasca mentre camminavamo, lei si voltava di tanto in tanto per vedermi qualche passo dietro di loro. Un po' mi mancava il freddo dei giorni passati, il vento. Si fermarono, si dissero qualcosa e la nostra amica mi guardò pronunciando un “va bene”. Mi sorrise ed io la salutai raggiungendole, si baciarono. Restammo di nuovo noi due. Ci avviammo verso l'uscita della stazione, lei mi prese sotto braccio abbassò la testa in un gesto di confidenza e mi disse ridendo

“Ho quasi avuto paura che non se ne andasse più”.

Ridemmo insieme. Ci fermammo indecisi su cosa fare, lei si voltò e disse

“Camminiamo un po'?”.

Annuii e ci avviammo, lasciai a lei il compito di decidere dove andare, tanto per me non faceva differenza, in realtà camminare un po' mi scocciava, ma era un ottimo modo per evitare la gente intorno, per sentirci come se fossimo soli. E poi la distrazione di compiere un gesto mi era necessaria, e forse era necessaria anche a lei. Camminammo, come voleva lei. Per fortuna erano le sei di sera ed il sole era già calato da un bel po'. Almeno il buio mi rianimava un po', il sole sarebbe stato insopportabile, con la sua luce. Lei si raccolse i molti capelli tenendoli fermi con una matita. Come era bella in quel gesto, mi dava sollievo, li raccoglieva tutti tenendoli alzati sopra la nuca e scoprendo il collo, ed era chiara come una luce mentre lo faceva, limpida come la calma. La guardai e decisi che quello sarebbe stato il mio ricordo, la sua bellezza sarebbe stata la mia consolazione. Mi sentii meglio. Mi guardò abbassando un po' la fronte, poi mi chiese tirando un sospiro

“Perché?”.

Io abbassai il viso per qualche secondo, poi tentai di risponderle mentre riprendemmo a camminare. Le raccontai il tempo trascorso, le raccontai dello spillo che avevo nella pelle, del mio malessere, delle mie idee, le delusioni, le cose accadute, quelle perse, le raccontai di quei giorni in cui lei ancora non c'era, di quei giorni in cui forse non c'ero nemmeno io. Poi le dissi anche dei giorni in cui lei arrivò. Di tutte quelle cose che non capii, di quelle che credevo di aver capito. Le dissi delle persone che avevo conosciuto e di quelle che stavo conoscendo. Avrei voluto dirle il perché di molte cose, ma non lo trovai e fui sincero. Tentai di farle vedere le mie parole, di farle vedere lei stessa, me stesso, quella sera e le altre trascorse. Le parlai delle cose che sapevo e di quelle che non sapevo. Lei mi ascoltava guardando la strada, talvolta si voltava verso di me. Io tentavo di guardarla il più possibile. Si toccava spesso il naso con la punta delle dita, mi piaceva quel gesto, mi piaceva come lo faceva, quasi senza accorgersene, mi piaceva guardarla mentre lo faceva. Era rassicurante, bella, quieta. Incrociammo gli sguardi proprio mentre lo faceva, scoppiammo a ridere. Fu come un grosso respiro si sollievo. Si rifece seria in un attimo, mi raccontò anche lei di alcuni suoi giorni, di una cosa accaduta, di lei nei giorni in cui non c'ero. Io volevo solo capire, poi il resto, credevo, sarebbe venuto da sé. Non avevo certezze e non cercavo conferme, questo almeno era già qualcosa.

“Andiamo di qui, ho bisogno di fumare” mi disse.

Ci fermammo vicino ad un muretto, io mi sedetti, lei mi rimase di fronte. Si accese una sigaretta. Non mi piaceva vederla fumare, ma non ci feci caso. Aveva gli occhi bassi, forse cercava qualcosa da dire. Io la guardavo fisso, ebbi l'istinto di carezzarle i capelli, ma mi trattenni e non so nemmeno perché. Lei salutò un amico che passava in quel momento, scambiarono qualche battuta. Tornata da me le dissi “Rassicurami”.

Lo dissi ridendo, come uno scherzo, ma in fondo ci speravo. Speravo in un gesto o in una parola che rendesse tutto chiaro. Speravo in qualcosa che mi togliesse il peso della comprensione. Lei mi guardò seria, buttò la sigaretta rispondendo che non sapeva come fare. Anche lei aveva il suo malessere, il suo spillo, io lo sapevo e non potevo aspettarmi niente, né tanto meno me l'aspettavo. Non c'era niente da aspettarsi, lo sapevamo tutti e due. L'unica cosa che le chiesi fu di non nascondersi, non mentirmi, così come io non mi nascosi, era l'unica certezza che avevo, l'unica che volevo avere. Forse era tutto lì. Forse percorrevamo lati diversi, che si sarebbero incontrati chi sa dove, o forse no. Non lo sapevamo. Cominciammo a camminare, questa volta fummo più vicini, ci guardavamo. Io alzai la testa, pensai che alla fine era tutto lì il senso, in quella strada. Avrei voluto sapere dove eravamo, ma forse non importa, non più almeno. Ci fermammo, le presi la mano e le dissi con un po' d'imbarazzo

“Forse ho bisogno di una persona come te nella mia vita...”

“Si, forse si”.

Mi strinse il braccio al collo e mi diede un bacio sulla guancia. Mi disse con il viso ancora appoggiato al mio

“Devo andare scusa....”.

Mi sorrise un po' amara, io la guardai entrare nel portone qualche metro più in là. Mi guardai la mano prima di incamminarmi pensando a cosa mi fosse servita quella sera, mi domandai se in qualche modo avessi trovato le risposte in cui speravo. Mi risposi che non lo sapevo. Mi rimisi la mano in tasca e mi avviai.



(postilla: ho pensato, perché scrivere di qualcuno è un dono infinito che spesso non si riesce ad apprezzare. E' come immergere quel qualcuno nella luce del ricordo, nella gioia che si ha nel rivivere quel momento che si è scritto, dove tutto non può essere che migliore, migliore persino di noi che scriviamo. Pur essendo la verità, è pur sempre qualcosa di scritto.)


lunedì, luglio 19, 2010

dopo un po' di tempo

All'ultima amica su questa spiaggia (titolo)

Riconoscerò la mia fine
appena ne sarò degno,
e per ciascuno di loro
sarò pronto,
e ciascuno di loro
sarà pronto per me.

Di te anima
cercherò la mano
amandola stretta.
Piano ti mostrerò
la mia sabbia
e desidererò,
abbandonarmi
sui tuoi occhi.

Conterò quei
pochi giorni che
tardano a venire,
nei miei dispiaceri
ritroverò tutto
il tempo perduto.

Rimango mentre
te ne vai e mentre
me ne vado,
rimani.


(ho l'idea che a scrivere la verità ci si senta ridicoli)

domenica, febbraio 21, 2010

un piccolo ritorno...

Devo abituarmi alle mie assenze.....e va beh. Ritorno con un po' di ritardo con una poesia, appena scritta in verità. Eccola a voi.

IMMAGNIFICO.
Forse
di tutto questo
ne troverò la gioia.
Piccola,
un solo attimo,
ma tutta mia.
Forse
che il tuo sorriso
non sia per me
non importa.
Mi basterà vederlo.
Mi accontenterò
di un ricordo,
che mi faccia sedere
un po' più in là.
Potrò comportarmi
come se fossi
un desiderio,
ed ingrato
mi guarderò
da lontano perdendomi.
Forse
non importa
che tu ci sia,
e forse non ci sei.
Cercherò di credere,
saprò dire la verità.
Confiderò
nella voce di un amico
e distante
resterò vivo.
Starò bene,
lasciando che la pioggia
mi scivoli addosso
come una carezza.

mercoledì, settembre 09, 2009

monologo sul viaggio......

Con il passare del tempo il viaggio sembra l' unico modo per restare da qualche parte. Il solo spostarsi non lo contempla tutto, viaggiare è modificare lo spazio intorno, modificare come tale spazio interagisce con noi. Se guardi fuori te ne rendi conto. E' fondamentale. Bisogna vedere le cose che si allontanano per capire che si sta viaggiando. Il dove si arriva ha il solo scopo di indicare il compiersi, tenere a mente dove si è cercato. Se sei in viaggio la cosa peggiore sono i giorni che passano, il chiaro sentimento delle ore che se ne vanno. Un' agonia terribile, come sorseggiare l' ultimo bicchiere. Guardando fuori dai finestrini o dal vetro degli alberghi vedi distintamente i giorni passare, senti il sapore in bocca di ogni minuto. Alla fine comprendi come il piccolo tentativo di dare un colore a tutti quei minuti sia stato inutile, come in fondo non importa niente di che hai fatto, importa solo quello che riesci a ricordare. Le cose che vedi hanno lo stesso peso di quelle che ricordi, o che fingi di ricordare, perché in fondo l' immagine è solo un pretesto per credere di aver vissuto qualcosa per cui ne valeva la pena, qualcosa che rimane anche senza il tuo guardarla. Cosa comprensibile in fondo, perché la condanna dell' uomo è ostinarsi a cercare qualcosa che sia fuori da se stesso ma che lo renda comunque tale. Nelle stanze dei motel ho sempre avuto la netta sensazione di profanare un ricordo, di prendere il pezzetto di viaggio di qualcun altro. Si fa troppo presto a comprendere che le facce anonime, le lenzuola
pulite, i bar ed i ristorante non hanno il potere che speravamo, non ti danno quella novità, quella distanza che renderebbe le cose come dovrebbero essere. Rimane la gente, ma dopo un po' ti stanchi anche di quella, degli stranieri, dei camerieri dei bar, delle commesse dei negozi di souvenir, e comincia a giungerti la curiosa sensazione che siano sempre le stesse persone che si cambiano d' abito. Stranamente rassicurante. Il bello sarebbe porsi nel mezzo nel decidere fra quello che vedi e quello che immagini, fra vivere e ricordare. Il viaggio è questo, cercare il punto preciso che ti permetta di confondere ciò che c' è dentro con ciò che c' è fuori. Il resto, se c' è, viene da solo. Lo sapevamo, lo abbiamo sempre saputo, solo che avevamo voglia di dimenticarlo. Sembra più semplice pensare al viaggio solo come al vivere posti che non ci appartengono, senza sapere che nessun posto ci appartiene, senza sapere che l' unica cosa che rimarrà del viaggio è l' essere stati lontano. Nelle stanze fredde senza umanità dei motel mi ha assalito la disarmante consapevolezza che per stare fermi basterebbe chiudere gli occhi.

postilla: si potrebbe pensare che in fondo il tempo è solo un modo per tenere da parte dove si è arrivati da dove ancora bisogna arrivare; ho travato in un cassetto un bigliettino scritto a mano, ho voluto credere alle parole che leggevo, come se fossero state dette da un amico.

martedì, agosto 25, 2009

le cose accadono...

Lì dove era, appoggiato al vetro freddo della finestra, guardava fuori e pensava a tutte le cose che non riusciva a vedere. L' unica certezza che aveva era il bicchiere che aveva in mano. Immaginava cosa, in un' altra città, una certa ragazza stesse facendo, cosa stesse pensando. Forse non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava ora, forse in un preciso istante che non ricorda ha sbagliato strada, facendo girare la sua vita dove non doveva girare, facendole prendere una direzione che proprio non era la sua. Avrebbe dovuto innamorarsi, e magari essere sposato, avere un figlio. Cercò di buttare giù il contenuto del suo bicchiere, ma vi rinunciò, non era certo un bevitore, lo posò sul tavolo e si fermò ad osservarlo bene, in ogni suo lato, in ogni riflesso che il vetro creava, ogni piccola riga di colore che sfumava sulla superficie curva del bicchiere. Cercò disperatamente una risposta in quei riflessi, in quelle linee, ma non la trovò. Aveva solo la tremenda sensazione di trovarsi nel posto sbagliato, o nella vita sbagliata, che poi è lo stesso. Perché in fondo questo sono le persone: il posto in cui vivono, le cose che fanno, le persone che incontrano; ed è un magnifico paradosso, perché basta solo un soffio, un attimo per sbagliare strada e trovarsi ad essere una cosa diversa da quello che si dovrebbe, o si vorrebbe. Perché poi il dovere non esiste, non si deve essere niente, c' è solo quello che si vuole essere, quello che si vuole vivere. Sorrise al ricordo di un mattino nitido di primavera e di una pessima figura. Non aveva mai creduto alla favola ben confezionata del libero arbitrio, alla storiella che tutto è nelle nostre mani, tu puoi fare ciò che vuoi, le cose non funzionavano così, non per lui almeno. La verità è che in un attimo vedi quello che vorresti, ciò che vorresti essere, e ti metti a rincorrerlo, dovunque e comunque. Se sei fortunato raggiungi un quinto di quello che vuoi, un quinto di quella felicità che credevi di raggiungere. Se sei solo stanco, come lo è quasi tutta la gente, allora ti siedi e ti accontenti di quello che arriva, di quello che puoi prendere allungando appena la mano. E non si capisce di cosa poi si è realmente stanchi, perché in fondo non si è fatto niente. Solo di tanto in tanto con un bicchiere in mano, ti metti a ricordare quello che volevi, e ti basta, te lo fai bastare, immaginare come saresti stato se il mondo non andasse come va. E accade che cominci a crederci sul serio che le cose vanno come vanno, che poi uno deve andare avanti, che poi la realtà è un' altra, senza mai chiedersi "ma avanti dove?", senza mai pensare che il mondo gira in quel dannatissimo modo perché sei tu che lo fai girare, che se ti fermi un giorno e dici basta il mondo si ferma, che se ti volti e non vedi niente allora vuol dire che non hai fatto niente, che non sei niente. Che in fondo un quinto della felicità non è poi male. Bisbigliò la frase che sua madre gli diceva spesso: "la vita è come il latte, bisogna berla tutta prima che scada". Guardò istintivamente l' orologio pensando che non è poi troppo tardi. Decise che avrebbe dimenticato tutto, tutta la vita sbagliata fatta fino allora, tutto ciò che lo avrebbe distratto fino a che non avrebbe ritrovato lei, e da lì avrebbe ricominciato tutto, ogni cosa sarebbe passata, e se poi non l' avrebbe ritrovata pazienza, tanto non si ricorderebbe di aver fallito. Prese la sua piccola agenda e vi scrisse su di una pagina giusto al centro: "RITROVARE LA RAGAZZA"; così giusto per essere sicuro di non dimenticare pure quello. Pensò che in fondo ci sono tante strade diverse per andare in un posto....

(piccolo brano che, appena adattato, finirà nel romanzo che sto scrivendo...il mio primo romanzo.)

sabato, giugno 20, 2009

lettera all' insensatezza (sull' interiorità delle cose insensate, o l' insensatezza delle cose interiori)

In effetti il termine delle cose sta nell' iniziarle. E non è affatto cosa da poco anzi. La coscienza di certo non ha alcun reale scopo se non quello di metterci di fronte alle cose per quelle che sono. Ho sempre avuto seri problemi nel figurarmi il fine ultimo degli scopi, il concludersi dei progetti. Cosa che potrei considerare una dote artistica. Ma la sincerità esula dall' arte, come la vita esula dall' infinito. Anche qui ora, nel mio scriverti queste righe, fingo di porre le cose nella giusta misura, mentre non ho idea di quale sia questa misura. Considerare il filtro della mia opinione come plausibile è un bel gioco, il gioco della coscienza pulita, che non ha significato. Dovrei avere la forza di pormi nella tua coscienza. Ma francamente non ne ho alcuna voglia. Forse è questo l' errore, il considerare la volontà come una ragionevole spinta. In fin dei conti sono dove mi aspettavo di essere, e sebbene la previdenza sia una condanna, non riesco a vederci del male. Il tempo sarà l' unica porta che mi preoccuperò di aprire, per il resto basterai tu. Ti do carta bianca, fai pure tutto quello che avrei dovuto fare io, vivi come avresti dovuto vivere con me, tieniti tutti i meriti, per me non hanno valore. Non mi interessa dove andrai, se arriverai da qualche parte e con chi, mi basta il ricordo. In fondo il mio tempo è tutto qui, in quello che le mie mani riescono a tenere, e non me ne rammarico, anzi. Crederò alle bugie, anzi, ne inventerò altre in cui credere, e niente resterà dove è ora. Sai, non felice delle cose a cui ho rinunciato, sono felice delle persone che ho perso, poiché come sono riesco a guardarlo con rispetto. Non credo che la felicità sia avere ottenuto qualcosa. Non mi aspetto di essere capito, figuriamoci, non pretendo certo risultati, ne tuto questo ha uno scopo, in fondo la mia lontananza la considero un dono. Persino tu la vedevi speciale, e per questo non la sopportavi. Penso sia giusto, non perché le cose abbiano un particolare senso, ma perché riesco a concepire ciò che sono. Non voglio uscire, e non pretendo che qualcun altro entri. Tutto sommato non potrei trovami in nessun altro posto senza provare la nostalgia che provo. Non ti faccio nessun augurio, non per cattiveria per carità, ma perché le cose che sono per te non hanno alcun peso sulle mie mani. Mi sederò da qualche parte, aspettando che le nuvole mi indichino la via e facciano il loro corso.

sabato, giugno 06, 2009

un' idea folle-puntata 7 (Come illudersi di ritornare)

Ecco a voi.....si lo so ho un assenza ingiustificata, ma capita. Mi sono ripromesso di essere più costante soprattutto con questa storia, e poi ho altre ideuzze da sviluppare. Vedrete, per ora scusatemi e leggetevi questo.

I DIALOGHI SULL' ASSENZA
D è fermo in piedi, guarda il cellulare spento che tiene fra le mani. Riprende a camminare. Accende il cellulare ed attende qualche secondo, poi cerca il numero in rubrica. Lo trova. Dall' altra parte si sente lo squillo. Ne servono tre per avere risposta.
"Ah D sei tu"
"Si. Terrò il telefono spento, ti chiamo per sentirti ed avere qualche notizia. Lì che si dice? Hai avvertito tutti?"
"Si. Ho fatto il giro di telefonate, ho parlato col tuo capo. Anche se vogliono indicazioni più precise. Per esempio quanti giorni starai via o se puoi continuare il lavoro da lì"
"Non sono in grado di dare risposte, e poi ora come ora non me ne frega niente. Non ho nemmeno il portatile. Dì solo che tra qualche giorno mi farò vivo io"
"Come preferisci. Allora non sai quanto starai lì?"
"Ancora no. Me ne andrò, ma prima devo recuperare alcune cose, ritrovare alcune persone, forse"
"Va bene. Fa come credi, però solo cerca di essere sicuro di quello che fai"
"E' questo il punto. Io non sono più sicuro, non sono più sicuro di niente"
"Non chiedere troppo a te stesso, e nemmeno agli altri. Siamo solo persone D!"
"Non temere. Non ho niente da chiedere a nessuno. Ti chiamo fra un paio di giorni, tu non avere pensieri ok? Mi faccio sentire"
Mentre spegne il cellulare si ferma. Resta qualche secondo indeciso su dove andare. Poi decide che prendere la direzione del bar può essere un buon inizio. Ha i passi lenti, volutamente pesanti. Non ha nessuno interesse per quello che gli sta intorno. Ha le mani in tasca e gli occhi leggermente bassi. Pensa che in fondo l' odio per quel paese provato fino ad ora non ha alcun senso. Prendersela con un insieme di case gli sembra davvero stupido. Si guarda intorno, si sforza di avere qualche ricordo. Un particolare, un luogo. Qualsiasi cosa. Ma non gli viene niente in mente. Pazienza, pensa, mi verranno. Si sente chiamare. Si volta visibilmente irritato. Una ragazza lo raggiunge salutandolo con la mano. La ricorda, è quella che ha incontrato davanti la chiesa. Ricorda anche di conoscerla da tempo, anni. Non gli viene il nome, ma non si sforza. Lo dirà lei. Lei lo raggiunge, sorridente, anche bella. Gli da un bacio sulla guancia, accennato. D non cambia espressione.
"D come stai? Fuori la chiesa l' altro giorno mi hai fatto preoccupare! Però capisco ovviamente, oddio sono anni che non ti vedo. Ma ti ricordi di me?"
"Si mi ricordo, abbastanza" Accenna appena un sorriso. D non ha voglia di fare conversazione ma lei sembra non curarsene. Continua a sorridergli. Luminosa.
"Meno male che ti ricordi. Pensavo te ne fosti andato"
"No. Un po' resterò qui, non so quanto"
"E' una buona cosa allora. Stai dai tuoi immagino"
"Si. Scusa se ti sembro sgarbato ma non sono di buona compagnia, ne mi entusiasma l' idea di chiacchierare. Mi comprenderai"
"In verità no. Non ti comprendo, però non ti biasimo"
"E' già qualcosa" D riprende a camminare e lei lo segue, un po' indietreggiata. Camminano alcuni minuti in silenzio. Lei prende coraggio e gli si para davanti.
"Scusa se te lo chiedo D, ma perché sei rimasto? Era ovvio che tu venissi, ma perché sei rimasto?" La voce è ferma, senza comprensione ne empatia. La domanda suona come un' accusa. D la guarda qualche secondo poi risponde calmo
"Perché ci dovrebbe essere un motivo per rimanere e perché dovrei dirlo a te?"
"Se non vuoi dirmelo sei liberissimo. Ma un motivo ci deve essere. In fondo te ne sei andato"
"Quindi non posso rimanere. Siete strani voi altri"
"Sai cosa penso? Penso che troppo spesso chi si sente diverso vede la sua diversità come un valore aggiunto. Tutti gli altri sono borghesi, banali, ordinari. Non hai mai nemmeno il sospetto che forse sei tu quello fatto male, sei tu che non sei fatto per gli altri?"
"Francamente non capisco questa discussione. Tu non sai niente, ne di me, ne del resto. A me non frega niente di come siete fatti voi. Non voglio aver ragione, ne voglio darvi torto"
"Però te ne sei andato. La cosa non ti rende migliore, spero te ne renda conto"
"Vi sentite stranamente traditi. Siete strani voi altri"
"Guardati bene in faccia D. Io volevo bene a tuo fratello, e volevo bene anche a te. Forse non te ne sei mai accorto ma non ha importanza. Il fatto è che sei scappato, non si capisce bene da cosa, ma sei scappato. E noi qui siamo rimasti cercando di capire da cosa tu stessi scappando. Ti abbiamo invidiato, ti abbiamo giustificato ma non siamo riusciti a capirti. Forse scappavi da noi, o forse scappavi da un' idea, da un preconcetto. Hai pensato che forse, quell' idea, quel preconcetto lo avevi creato tu? Lo so che per te forse non ha senso, ma noi ci siamo sentiti traditi, ci siamo sentiti soli. Non ti accuso di niente. Amavi tuo fratello, lo so, e forse hai amato anche me. Però te ne sei andato. Forse non dovrei dirti queste cose"
D viene colpito dal ricordo. Un' improvvisa vergogna lo coglie dolorosamente. Lei forse ha ragione. D la guarda come si guarda qualcosa di lontano. Lei gli resta ferma davanti. D cerca qualcosa da dire, ma non lo trova. Riesce solo a guardarla, ora sa chi è. Questa volta lei riprende a camminare. D la segue, in silenzio, ma non smette di guardarla. In fondo è cambiata, cerca di giustificarsi. Ma non ci crede. Cammina e continua a guardarla. Lei sembra non curarsene. Gli parla senza guardarlo. La voce è incolore questa volta.
"Ti rifaccio la domanda D. Perché sei restato?"
D non risponde, ma d' altra parte lei non si aspetta nessuna risposta.

domenica, aprile 12, 2009

intermezzo sull' interiorità delle cose (ovvero la bellezza)

Servirebbe poter distogliere lo sguardo dalle cose, per riuscire a non esserne colpiti. Ma chiusi come siamo in una stanza buia, vi è ben poca possibilità di distogliere lo sguardo. Tal volta ci si affida ai suoni. In fondo il dove, come sempre, non ha alcuna importanza. Attendere sembra l' unica cosa sensata da fare, quindi è anche la più triste. La ragione ha sempre una connotazione tragica, come una condanna, una spietata sincerità che non lascia spazio al gioco del potrebbe. L' improbabile è una meravigliosa piccola bugia che ci riscalda. Ci guardavamo in viso con troppa lealtà, mentire sarebbe stata una salvezza ma non ne eravamo in grado, non potevamo fingere. Quindi sapevamo che le cose andavano come dovevano. Che in fondo il dovere è una truffa, come il tempo. L' immobilità dell' aria ci rassicurava, senza sapere perché, ma anche il sapere è una truffa, la consapevolezza è la trappola peggiore, meglio la deriva, il vagare irresponsabile verso nulla di definito, verso un posto lontano solo prima di arrivarci, dove solo il giungere ci spiega il viaggio. Era quello di cui avevamo bisogno, che sognavamo ed ancora sogniamo. Il giuoco cieco di dare sempre un perché raffredda gli animi, le cose hanno una tale coscienza di loro stesse che non hanno affatto bisogno della nostra, ingannevole come le speranze, come i giudizi, come le parole. Forse dovevamo solo credere, forse sarebbe bastato quello, ma lo sforzo era più grande della nostra volontà, o magari non avevamo una volontà. Era tutto lì, ne eravamo certi, era tutto nella nostra presenza, il senso delle cose stava nel fatto evidente che noi eravamo lì, in quel momento esistevamo. Era la nostra forza, la nostra bellezza. Chiedere oltre non ci era concesso, ne volevamo che lo fosse. Era dentro, e ci bastava, il bello sarebbe stato quello. Finalmente sapevamo che vedere e guardare erano cose molto diverse, ed eravamo ben disposti a rinunciare ad una delle due, anzi ci avevamo già rinunciato. Ora il buio era caldo, una mano dolce che ci stringeva. Ci avviammo piano verso quello che oramai non avevamo più bisogno di raggiungere.

domenica, aprile 05, 2009

"...sembra quasi che la notte non finisca mai e che io debba gia fare a meno della mia ombra"

Era ferma su quella panchina già da un' ora, o forse anche di più. Ma il tempo per lei non aveva alcuna importanza. Osservava ferma tutte le cose intorno, e senza riuscirci, cercava disperatamente di farle nuove. Purtroppo sapeva bene che di nuovo non esisteva niente, ne tanto meno riusciva a pensare che sarebbe dovuto esistere, non aveva ma creduto alla giustizia delle cose, ne al necessario compiersi dei fatti. Tutto ciò che sapeva, di cui era maledettamente sicura, era di essere sola su quella panchina, e la cosa le sembrava tristemente sufficiente. Guardava attenta tutto ciò che accadeva intorno, sorprendendosi a pensare che fosse tutto irreale, illusorio, lontano un milione di chilometri, come quelle vecchie pellicole in bianco e nero con quegli effetti troppo antiquati per avere un minimo di credibilità. Per un attimo chiuse gli occhi inclinando leggermente la testa in dietro, ma non si aspettava niente, aveva solo bisogno di far riposare un po' gli occhi. Sorrideva al pensiero che non sarebbe dovuta nascere lì, ma non riusciva proprio a trovare un posto dove sarebbe dovuta nascere, in fondo non aveva mai avuto nessuno interesse per nessun luogo, nessuna città che le fosse appartenuta, nessun posto che le fosse mancato. Niente di niente. Che cosa buffa però, la vita non faceva affatto per lei, eppure la incuriosiva tanto forse per questo la maggior parte della gente era solo una macchia informe, perché vivevano senza rendersene conto, dando la vita per scontato, mentre solo chi non ci era portato, a vivere, riusciva a vederne la curiosità. La crudeltà del mondo. Intorno a lei c' erano persone, vite anonime che si rincorrevano una dietro l' altra, piccole esistenze che scorrevano, tutte uguali, e lei che le guardava senza mai toccarle, senza che nessuna di loro toccasse lei. L' umanità. Non aveva mai capito bene cose significasse quella parola, cosa fosse poi l' umanità, cosa potesse mai accomunare milioni di piccoli esseri isterici che andavano tutti dalla stessa parte senza saperlo, senza capire, senza mai voltarsi verso gli altri che stavano di fianco. Per la prima volta forse riuscì a sentire chiaramente tutta la freddezza, tutta la desolazione di non appartenere a quella schiera di esserini, di non essere un membro dell' umanità. Non aveva mai visto così chiaramente la sua solitudine, la sua lontananza, la spietata evidenza della sua diversità. Nonostante tutto ne sorrideva, ma non aveva altro. Solo quel sorriso triste le rimaneva, solo quella piccola saggezza del tutto personale, che mai avrebbe potuto raccontare. Era tutto racchiuso in quel sorriso, sola su di quella panchina. Non aveva niente da rimproverare al mondo, ne a se stessa, questo almeno le sembrava un conforto, avere un rancore da indirizzare verso qualcosa o qualcuno spesso è solo un dolore inutile, e lei era da sempre si considerava abbastanza intelligente da saperlo bene. Di un tratto la panchina le sembrò sconfinata, pericolosamente infinita, troppo grande per un corpicino piccolo come il suo. Si ritrovò a guardarsi le mani con un forte imbarazzo, con la voglia matta di andarsene via, il dove non aveva nessun importanza, bastava allontanarsi da quella maledetta infinita panchina, bastava che la sua piccola presenza non fosse così evidente, così chiara da poter essere notata. Bastava andarsene, da qualsiasi parte ma andarsene. Si alzò cercando il più possibile di preservare un' aria indifferenze, sorpresa da quella stupida premura, da uno scrupolo tanto immotivato quanto infantile. Fece qualche passo poi si fermò, respirò piano a pieni polmoni, riprese un po' di calma e riguardò tutto quello che le stava intorno. Aveva sempre cercato di capire chi stese dalla parte del giusto, chi avesse ragione, se lei o il mondo, e solo lì si accorse di quanta ingenuità ci fosse in quella ricerca. Invidiava ogni singola persona che vedeva muoversi intorno, solo ora riusciva a non vergognarsene, e per un istante le parve di aver compreso tutto. Ma oramai non aveva nessuna importanza. Non poteva condannarsi, e non poteva condannare neanche l' umanità, ed era stanca, inesorabilmente affaticata. Aveva voglia di perdonare, e di riposarsi. Cominciò a camminare senza accendere l' ipod, voleva sentire il mondo, almeno per una volta, poi forse sarebbe successo qualcosa. Aveva deciso che almeno per un po' si sarebbe concessa il lusso di potersi sorprendere, e le sembrava una enorme conquista. Le venne in mente il verso di una vecchia poesia e riuscì a sorridere senza tristezza mentre camminava fra la gente.

lunedì, marzo 23, 2009

questa notte

SENZA TITOLO

Meravigliosamente
le cose restano tali,
come se il sopraggiungere
degli eventi possa finire.
Sarei più felice
se avessi la capacità
di confondermi
e di resistere alla
mia immaturità.
Vorrei potermi
voltare e sapere
il resto come rimane.
Poter osservare le cose
lì dove noi non
guardiamo affatto.
La consapevolezza
di essere dove sono
non mi dà la gioia
che vorrei.
Ma d’ altra parte
l’ attesa sembra
l’ unica via di fuga.
Il buio si osserva
talvolta con occhi
migliori se vi è
altro da guardare.
E non posso che
notare l’ assenza,
rivedere la mancanza
già sopita di ciò
che mi è dietro
come se non l’ avessi
incontrato mai.
Ma riappacifico
lo spazio intorno con
tutto quello che so.
Meravigliosamente.

...scritta ora, dieci minuti fa. Immaginare a volte ci rende svegli. Eccola a voi.