mercoledì, settembre 09, 2009

monologo sul viaggio......

Con il passare del tempo il viaggio sembra l' unico modo per restare da qualche parte. Il solo spostarsi non lo contempla tutto, viaggiare è modificare lo spazio intorno, modificare come tale spazio interagisce con noi. Se guardi fuori te ne rendi conto. E' fondamentale. Bisogna vedere le cose che si allontanano per capire che si sta viaggiando. Il dove si arriva ha il solo scopo di indicare il compiersi, tenere a mente dove si è cercato. Se sei in viaggio la cosa peggiore sono i giorni che passano, il chiaro sentimento delle ore che se ne vanno. Un' agonia terribile, come sorseggiare l' ultimo bicchiere. Guardando fuori dai finestrini o dal vetro degli alberghi vedi distintamente i giorni passare, senti il sapore in bocca di ogni minuto. Alla fine comprendi come il piccolo tentativo di dare un colore a tutti quei minuti sia stato inutile, come in fondo non importa niente di che hai fatto, importa solo quello che riesci a ricordare. Le cose che vedi hanno lo stesso peso di quelle che ricordi, o che fingi di ricordare, perché in fondo l' immagine è solo un pretesto per credere di aver vissuto qualcosa per cui ne valeva la pena, qualcosa che rimane anche senza il tuo guardarla. Cosa comprensibile in fondo, perché la condanna dell' uomo è ostinarsi a cercare qualcosa che sia fuori da se stesso ma che lo renda comunque tale. Nelle stanze dei motel ho sempre avuto la netta sensazione di profanare un ricordo, di prendere il pezzetto di viaggio di qualcun altro. Si fa troppo presto a comprendere che le facce anonime, le lenzuola
pulite, i bar ed i ristorante non hanno il potere che speravamo, non ti danno quella novità, quella distanza che renderebbe le cose come dovrebbero essere. Rimane la gente, ma dopo un po' ti stanchi anche di quella, degli stranieri, dei camerieri dei bar, delle commesse dei negozi di souvenir, e comincia a giungerti la curiosa sensazione che siano sempre le stesse persone che si cambiano d' abito. Stranamente rassicurante. Il bello sarebbe porsi nel mezzo nel decidere fra quello che vedi e quello che immagini, fra vivere e ricordare. Il viaggio è questo, cercare il punto preciso che ti permetta di confondere ciò che c' è dentro con ciò che c' è fuori. Il resto, se c' è, viene da solo. Lo sapevamo, lo abbiamo sempre saputo, solo che avevamo voglia di dimenticarlo. Sembra più semplice pensare al viaggio solo come al vivere posti che non ci appartengono, senza sapere che nessun posto ci appartiene, senza sapere che l' unica cosa che rimarrà del viaggio è l' essere stati lontano. Nelle stanze fredde senza umanità dei motel mi ha assalito la disarmante consapevolezza che per stare fermi basterebbe chiudere gli occhi.

postilla: si potrebbe pensare che in fondo il tempo è solo un modo per tenere da parte dove si è arrivati da dove ancora bisogna arrivare; ho travato in un cassetto un bigliettino scritto a mano, ho voluto credere alle parole che leggevo, come se fossero state dette da un amico.

martedì, agosto 25, 2009

le cose accadono...

Lì dove era, appoggiato al vetro freddo della finestra, guardava fuori e pensava a tutte le cose che non riusciva a vedere. L' unica certezza che aveva era il bicchiere che aveva in mano. Immaginava cosa, in un' altra città, una certa ragazza stesse facendo, cosa stesse pensando. Forse non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava ora, forse in un preciso istante che non ricorda ha sbagliato strada, facendo girare la sua vita dove non doveva girare, facendole prendere una direzione che proprio non era la sua. Avrebbe dovuto innamorarsi, e magari essere sposato, avere un figlio. Cercò di buttare giù il contenuto del suo bicchiere, ma vi rinunciò, non era certo un bevitore, lo posò sul tavolo e si fermò ad osservarlo bene, in ogni suo lato, in ogni riflesso che il vetro creava, ogni piccola riga di colore che sfumava sulla superficie curva del bicchiere. Cercò disperatamente una risposta in quei riflessi, in quelle linee, ma non la trovò. Aveva solo la tremenda sensazione di trovarsi nel posto sbagliato, o nella vita sbagliata, che poi è lo stesso. Perché in fondo questo sono le persone: il posto in cui vivono, le cose che fanno, le persone che incontrano; ed è un magnifico paradosso, perché basta solo un soffio, un attimo per sbagliare strada e trovarsi ad essere una cosa diversa da quello che si dovrebbe, o si vorrebbe. Perché poi il dovere non esiste, non si deve essere niente, c' è solo quello che si vuole essere, quello che si vuole vivere. Sorrise al ricordo di un mattino nitido di primavera e di una pessima figura. Non aveva mai creduto alla favola ben confezionata del libero arbitrio, alla storiella che tutto è nelle nostre mani, tu puoi fare ciò che vuoi, le cose non funzionavano così, non per lui almeno. La verità è che in un attimo vedi quello che vorresti, ciò che vorresti essere, e ti metti a rincorrerlo, dovunque e comunque. Se sei fortunato raggiungi un quinto di quello che vuoi, un quinto di quella felicità che credevi di raggiungere. Se sei solo stanco, come lo è quasi tutta la gente, allora ti siedi e ti accontenti di quello che arriva, di quello che puoi prendere allungando appena la mano. E non si capisce di cosa poi si è realmente stanchi, perché in fondo non si è fatto niente. Solo di tanto in tanto con un bicchiere in mano, ti metti a ricordare quello che volevi, e ti basta, te lo fai bastare, immaginare come saresti stato se il mondo non andasse come va. E accade che cominci a crederci sul serio che le cose vanno come vanno, che poi uno deve andare avanti, che poi la realtà è un' altra, senza mai chiedersi "ma avanti dove?", senza mai pensare che il mondo gira in quel dannatissimo modo perché sei tu che lo fai girare, che se ti fermi un giorno e dici basta il mondo si ferma, che se ti volti e non vedi niente allora vuol dire che non hai fatto niente, che non sei niente. Che in fondo un quinto della felicità non è poi male. Bisbigliò la frase che sua madre gli diceva spesso: "la vita è come il latte, bisogna berla tutta prima che scada". Guardò istintivamente l' orologio pensando che non è poi troppo tardi. Decise che avrebbe dimenticato tutto, tutta la vita sbagliata fatta fino allora, tutto ciò che lo avrebbe distratto fino a che non avrebbe ritrovato lei, e da lì avrebbe ricominciato tutto, ogni cosa sarebbe passata, e se poi non l' avrebbe ritrovata pazienza, tanto non si ricorderebbe di aver fallito. Prese la sua piccola agenda e vi scrisse su di una pagina giusto al centro: "RITROVARE LA RAGAZZA"; così giusto per essere sicuro di non dimenticare pure quello. Pensò che in fondo ci sono tante strade diverse per andare in un posto....

(piccolo brano che, appena adattato, finirà nel romanzo che sto scrivendo...il mio primo romanzo.)

sabato, giugno 20, 2009

lettera all' insensatezza (sull' interiorità delle cose insensate, o l' insensatezza delle cose interiori)

In effetti il termine delle cose sta nell' iniziarle. E non è affatto cosa da poco anzi. La coscienza di certo non ha alcun reale scopo se non quello di metterci di fronte alle cose per quelle che sono. Ho sempre avuto seri problemi nel figurarmi il fine ultimo degli scopi, il concludersi dei progetti. Cosa che potrei considerare una dote artistica. Ma la sincerità esula dall' arte, come la vita esula dall' infinito. Anche qui ora, nel mio scriverti queste righe, fingo di porre le cose nella giusta misura, mentre non ho idea di quale sia questa misura. Considerare il filtro della mia opinione come plausibile è un bel gioco, il gioco della coscienza pulita, che non ha significato. Dovrei avere la forza di pormi nella tua coscienza. Ma francamente non ne ho alcuna voglia. Forse è questo l' errore, il considerare la volontà come una ragionevole spinta. In fin dei conti sono dove mi aspettavo di essere, e sebbene la previdenza sia una condanna, non riesco a vederci del male. Il tempo sarà l' unica porta che mi preoccuperò di aprire, per il resto basterai tu. Ti do carta bianca, fai pure tutto quello che avrei dovuto fare io, vivi come avresti dovuto vivere con me, tieniti tutti i meriti, per me non hanno valore. Non mi interessa dove andrai, se arriverai da qualche parte e con chi, mi basta il ricordo. In fondo il mio tempo è tutto qui, in quello che le mie mani riescono a tenere, e non me ne rammarico, anzi. Crederò alle bugie, anzi, ne inventerò altre in cui credere, e niente resterà dove è ora. Sai, non felice delle cose a cui ho rinunciato, sono felice delle persone che ho perso, poiché come sono riesco a guardarlo con rispetto. Non credo che la felicità sia avere ottenuto qualcosa. Non mi aspetto di essere capito, figuriamoci, non pretendo certo risultati, ne tuto questo ha uno scopo, in fondo la mia lontananza la considero un dono. Persino tu la vedevi speciale, e per questo non la sopportavi. Penso sia giusto, non perché le cose abbiano un particolare senso, ma perché riesco a concepire ciò che sono. Non voglio uscire, e non pretendo che qualcun altro entri. Tutto sommato non potrei trovami in nessun altro posto senza provare la nostalgia che provo. Non ti faccio nessun augurio, non per cattiveria per carità, ma perché le cose che sono per te non hanno alcun peso sulle mie mani. Mi sederò da qualche parte, aspettando che le nuvole mi indichino la via e facciano il loro corso.

sabato, giugno 06, 2009

un' idea folle-puntata 7 (Come illudersi di ritornare)

Ecco a voi.....si lo so ho un assenza ingiustificata, ma capita. Mi sono ripromesso di essere più costante soprattutto con questa storia, e poi ho altre ideuzze da sviluppare. Vedrete, per ora scusatemi e leggetevi questo.

I DIALOGHI SULL' ASSENZA
D è fermo in piedi, guarda il cellulare spento che tiene fra le mani. Riprende a camminare. Accende il cellulare ed attende qualche secondo, poi cerca il numero in rubrica. Lo trova. Dall' altra parte si sente lo squillo. Ne servono tre per avere risposta.
"Ah D sei tu"
"Si. Terrò il telefono spento, ti chiamo per sentirti ed avere qualche notizia. Lì che si dice? Hai avvertito tutti?"
"Si. Ho fatto il giro di telefonate, ho parlato col tuo capo. Anche se vogliono indicazioni più precise. Per esempio quanti giorni starai via o se puoi continuare il lavoro da lì"
"Non sono in grado di dare risposte, e poi ora come ora non me ne frega niente. Non ho nemmeno il portatile. Dì solo che tra qualche giorno mi farò vivo io"
"Come preferisci. Allora non sai quanto starai lì?"
"Ancora no. Me ne andrò, ma prima devo recuperare alcune cose, ritrovare alcune persone, forse"
"Va bene. Fa come credi, però solo cerca di essere sicuro di quello che fai"
"E' questo il punto. Io non sono più sicuro, non sono più sicuro di niente"
"Non chiedere troppo a te stesso, e nemmeno agli altri. Siamo solo persone D!"
"Non temere. Non ho niente da chiedere a nessuno. Ti chiamo fra un paio di giorni, tu non avere pensieri ok? Mi faccio sentire"
Mentre spegne il cellulare si ferma. Resta qualche secondo indeciso su dove andare. Poi decide che prendere la direzione del bar può essere un buon inizio. Ha i passi lenti, volutamente pesanti. Non ha nessuno interesse per quello che gli sta intorno. Ha le mani in tasca e gli occhi leggermente bassi. Pensa che in fondo l' odio per quel paese provato fino ad ora non ha alcun senso. Prendersela con un insieme di case gli sembra davvero stupido. Si guarda intorno, si sforza di avere qualche ricordo. Un particolare, un luogo. Qualsiasi cosa. Ma non gli viene niente in mente. Pazienza, pensa, mi verranno. Si sente chiamare. Si volta visibilmente irritato. Una ragazza lo raggiunge salutandolo con la mano. La ricorda, è quella che ha incontrato davanti la chiesa. Ricorda anche di conoscerla da tempo, anni. Non gli viene il nome, ma non si sforza. Lo dirà lei. Lei lo raggiunge, sorridente, anche bella. Gli da un bacio sulla guancia, accennato. D non cambia espressione.
"D come stai? Fuori la chiesa l' altro giorno mi hai fatto preoccupare! Però capisco ovviamente, oddio sono anni che non ti vedo. Ma ti ricordi di me?"
"Si mi ricordo, abbastanza" Accenna appena un sorriso. D non ha voglia di fare conversazione ma lei sembra non curarsene. Continua a sorridergli. Luminosa.
"Meno male che ti ricordi. Pensavo te ne fosti andato"
"No. Un po' resterò qui, non so quanto"
"E' una buona cosa allora. Stai dai tuoi immagino"
"Si. Scusa se ti sembro sgarbato ma non sono di buona compagnia, ne mi entusiasma l' idea di chiacchierare. Mi comprenderai"
"In verità no. Non ti comprendo, però non ti biasimo"
"E' già qualcosa" D riprende a camminare e lei lo segue, un po' indietreggiata. Camminano alcuni minuti in silenzio. Lei prende coraggio e gli si para davanti.
"Scusa se te lo chiedo D, ma perché sei rimasto? Era ovvio che tu venissi, ma perché sei rimasto?" La voce è ferma, senza comprensione ne empatia. La domanda suona come un' accusa. D la guarda qualche secondo poi risponde calmo
"Perché ci dovrebbe essere un motivo per rimanere e perché dovrei dirlo a te?"
"Se non vuoi dirmelo sei liberissimo. Ma un motivo ci deve essere. In fondo te ne sei andato"
"Quindi non posso rimanere. Siete strani voi altri"
"Sai cosa penso? Penso che troppo spesso chi si sente diverso vede la sua diversità come un valore aggiunto. Tutti gli altri sono borghesi, banali, ordinari. Non hai mai nemmeno il sospetto che forse sei tu quello fatto male, sei tu che non sei fatto per gli altri?"
"Francamente non capisco questa discussione. Tu non sai niente, ne di me, ne del resto. A me non frega niente di come siete fatti voi. Non voglio aver ragione, ne voglio darvi torto"
"Però te ne sei andato. La cosa non ti rende migliore, spero te ne renda conto"
"Vi sentite stranamente traditi. Siete strani voi altri"
"Guardati bene in faccia D. Io volevo bene a tuo fratello, e volevo bene anche a te. Forse non te ne sei mai accorto ma non ha importanza. Il fatto è che sei scappato, non si capisce bene da cosa, ma sei scappato. E noi qui siamo rimasti cercando di capire da cosa tu stessi scappando. Ti abbiamo invidiato, ti abbiamo giustificato ma non siamo riusciti a capirti. Forse scappavi da noi, o forse scappavi da un' idea, da un preconcetto. Hai pensato che forse, quell' idea, quel preconcetto lo avevi creato tu? Lo so che per te forse non ha senso, ma noi ci siamo sentiti traditi, ci siamo sentiti soli. Non ti accuso di niente. Amavi tuo fratello, lo so, e forse hai amato anche me. Però te ne sei andato. Forse non dovrei dirti queste cose"
D viene colpito dal ricordo. Un' improvvisa vergogna lo coglie dolorosamente. Lei forse ha ragione. D la guarda come si guarda qualcosa di lontano. Lei gli resta ferma davanti. D cerca qualcosa da dire, ma non lo trova. Riesce solo a guardarla, ora sa chi è. Questa volta lei riprende a camminare. D la segue, in silenzio, ma non smette di guardarla. In fondo è cambiata, cerca di giustificarsi. Ma non ci crede. Cammina e continua a guardarla. Lei sembra non curarsene. Gli parla senza guardarlo. La voce è incolore questa volta.
"Ti rifaccio la domanda D. Perché sei restato?"
D non risponde, ma d' altra parte lei non si aspetta nessuna risposta.

domenica, aprile 12, 2009

intermezzo sull' interiorità delle cose (ovvero la bellezza)

Servirebbe poter distogliere lo sguardo dalle cose, per riuscire a non esserne colpiti. Ma chiusi come siamo in una stanza buia, vi è ben poca possibilità di distogliere lo sguardo. Tal volta ci si affida ai suoni. In fondo il dove, come sempre, non ha alcuna importanza. Attendere sembra l' unica cosa sensata da fare, quindi è anche la più triste. La ragione ha sempre una connotazione tragica, come una condanna, una spietata sincerità che non lascia spazio al gioco del potrebbe. L' improbabile è una meravigliosa piccola bugia che ci riscalda. Ci guardavamo in viso con troppa lealtà, mentire sarebbe stata una salvezza ma non ne eravamo in grado, non potevamo fingere. Quindi sapevamo che le cose andavano come dovevano. Che in fondo il dovere è una truffa, come il tempo. L' immobilità dell' aria ci rassicurava, senza sapere perché, ma anche il sapere è una truffa, la consapevolezza è la trappola peggiore, meglio la deriva, il vagare irresponsabile verso nulla di definito, verso un posto lontano solo prima di arrivarci, dove solo il giungere ci spiega il viaggio. Era quello di cui avevamo bisogno, che sognavamo ed ancora sogniamo. Il giuoco cieco di dare sempre un perché raffredda gli animi, le cose hanno una tale coscienza di loro stesse che non hanno affatto bisogno della nostra, ingannevole come le speranze, come i giudizi, come le parole. Forse dovevamo solo credere, forse sarebbe bastato quello, ma lo sforzo era più grande della nostra volontà, o magari non avevamo una volontà. Era tutto lì, ne eravamo certi, era tutto nella nostra presenza, il senso delle cose stava nel fatto evidente che noi eravamo lì, in quel momento esistevamo. Era la nostra forza, la nostra bellezza. Chiedere oltre non ci era concesso, ne volevamo che lo fosse. Era dentro, e ci bastava, il bello sarebbe stato quello. Finalmente sapevamo che vedere e guardare erano cose molto diverse, ed eravamo ben disposti a rinunciare ad una delle due, anzi ci avevamo già rinunciato. Ora il buio era caldo, una mano dolce che ci stringeva. Ci avviammo piano verso quello che oramai non avevamo più bisogno di raggiungere.

domenica, aprile 05, 2009

"...sembra quasi che la notte non finisca mai e che io debba gia fare a meno della mia ombra"

Era ferma su quella panchina già da un' ora, o forse anche di più. Ma il tempo per lei non aveva alcuna importanza. Osservava ferma tutte le cose intorno, e senza riuscirci, cercava disperatamente di farle nuove. Purtroppo sapeva bene che di nuovo non esisteva niente, ne tanto meno riusciva a pensare che sarebbe dovuto esistere, non aveva ma creduto alla giustizia delle cose, ne al necessario compiersi dei fatti. Tutto ciò che sapeva, di cui era maledettamente sicura, era di essere sola su quella panchina, e la cosa le sembrava tristemente sufficiente. Guardava attenta tutto ciò che accadeva intorno, sorprendendosi a pensare che fosse tutto irreale, illusorio, lontano un milione di chilometri, come quelle vecchie pellicole in bianco e nero con quegli effetti troppo antiquati per avere un minimo di credibilità. Per un attimo chiuse gli occhi inclinando leggermente la testa in dietro, ma non si aspettava niente, aveva solo bisogno di far riposare un po' gli occhi. Sorrideva al pensiero che non sarebbe dovuta nascere lì, ma non riusciva proprio a trovare un posto dove sarebbe dovuta nascere, in fondo non aveva mai avuto nessuno interesse per nessun luogo, nessuna città che le fosse appartenuta, nessun posto che le fosse mancato. Niente di niente. Che cosa buffa però, la vita non faceva affatto per lei, eppure la incuriosiva tanto forse per questo la maggior parte della gente era solo una macchia informe, perché vivevano senza rendersene conto, dando la vita per scontato, mentre solo chi non ci era portato, a vivere, riusciva a vederne la curiosità. La crudeltà del mondo. Intorno a lei c' erano persone, vite anonime che si rincorrevano una dietro l' altra, piccole esistenze che scorrevano, tutte uguali, e lei che le guardava senza mai toccarle, senza che nessuna di loro toccasse lei. L' umanità. Non aveva mai capito bene cose significasse quella parola, cosa fosse poi l' umanità, cosa potesse mai accomunare milioni di piccoli esseri isterici che andavano tutti dalla stessa parte senza saperlo, senza capire, senza mai voltarsi verso gli altri che stavano di fianco. Per la prima volta forse riuscì a sentire chiaramente tutta la freddezza, tutta la desolazione di non appartenere a quella schiera di esserini, di non essere un membro dell' umanità. Non aveva mai visto così chiaramente la sua solitudine, la sua lontananza, la spietata evidenza della sua diversità. Nonostante tutto ne sorrideva, ma non aveva altro. Solo quel sorriso triste le rimaneva, solo quella piccola saggezza del tutto personale, che mai avrebbe potuto raccontare. Era tutto racchiuso in quel sorriso, sola su di quella panchina. Non aveva niente da rimproverare al mondo, ne a se stessa, questo almeno le sembrava un conforto, avere un rancore da indirizzare verso qualcosa o qualcuno spesso è solo un dolore inutile, e lei era da sempre si considerava abbastanza intelligente da saperlo bene. Di un tratto la panchina le sembrò sconfinata, pericolosamente infinita, troppo grande per un corpicino piccolo come il suo. Si ritrovò a guardarsi le mani con un forte imbarazzo, con la voglia matta di andarsene via, il dove non aveva nessun importanza, bastava allontanarsi da quella maledetta infinita panchina, bastava che la sua piccola presenza non fosse così evidente, così chiara da poter essere notata. Bastava andarsene, da qualsiasi parte ma andarsene. Si alzò cercando il più possibile di preservare un' aria indifferenze, sorpresa da quella stupida premura, da uno scrupolo tanto immotivato quanto infantile. Fece qualche passo poi si fermò, respirò piano a pieni polmoni, riprese un po' di calma e riguardò tutto quello che le stava intorno. Aveva sempre cercato di capire chi stese dalla parte del giusto, chi avesse ragione, se lei o il mondo, e solo lì si accorse di quanta ingenuità ci fosse in quella ricerca. Invidiava ogni singola persona che vedeva muoversi intorno, solo ora riusciva a non vergognarsene, e per un istante le parve di aver compreso tutto. Ma oramai non aveva nessuna importanza. Non poteva condannarsi, e non poteva condannare neanche l' umanità, ed era stanca, inesorabilmente affaticata. Aveva voglia di perdonare, e di riposarsi. Cominciò a camminare senza accendere l' ipod, voleva sentire il mondo, almeno per una volta, poi forse sarebbe successo qualcosa. Aveva deciso che almeno per un po' si sarebbe concessa il lusso di potersi sorprendere, e le sembrava una enorme conquista. Le venne in mente il verso di una vecchia poesia e riuscì a sorridere senza tristezza mentre camminava fra la gente.

lunedì, marzo 23, 2009

questa notte

SENZA TITOLO

Meravigliosamente
le cose restano tali,
come se il sopraggiungere
degli eventi possa finire.
Sarei più felice
se avessi la capacità
di confondermi
e di resistere alla
mia immaturità.
Vorrei potermi
voltare e sapere
il resto come rimane.
Poter osservare le cose
lì dove noi non
guardiamo affatto.
La consapevolezza
di essere dove sono
non mi dà la gioia
che vorrei.
Ma d’ altra parte
l’ attesa sembra
l’ unica via di fuga.
Il buio si osserva
talvolta con occhi
migliori se vi è
altro da guardare.
E non posso che
notare l’ assenza,
rivedere la mancanza
già sopita di ciò
che mi è dietro
come se non l’ avessi
incontrato mai.
Ma riappacifico
lo spazio intorno con
tutto quello che so.
Meravigliosamente.

...scritta ora, dieci minuti fa. Immaginare a volte ci rende svegli. Eccola a voi.

giovedì, febbraio 26, 2009

per ora mi guardo indietro.........

LETTERA ALLA PICCOLA AMICA (titolo)
Niente passa o si dimentica,
per sempre resta qualcosa.
A volte sembra di rivederle,
e forse le rivedi davvero.
Senza sapere mai perché.
Tutto in una grande nostalgia.
Chissà se hai mai nostalgia
Di ciò che non hai vissuto come me?
Fuori piove,
che bel rumore che fa.
Fa compagnia e sembra voler
dire ci sono anch’ io,
non sei solo. La solitudine!
Forse non si è mai
veramente soli, sarebbe bello.
Ci sono giorni in cui
vorresti sprofondare nel buio.
Solo.
Altri in cui ti senti solo
fra un milione di persone
ed è la cosa peggiore.
La vita non è mai semplice.
È una strana compagna. Dispettosa.
Ma forse ci vuole bene.
Quelli come noi non sempre
riescono ad amarla.
Ma forse è giusto così.
Chissà se la ricorderemo la vita.
È bello scriverti piccola amica,
magari un giorno ti scriverò
anche una poesia.
Il rumore della pioggia ormai
è quasi come il silenzio.
Vorrei poterlo scrivere,
ma come si scrive il silenzio?
Il sono mi osserva muto
mentre ti scrivo queste righe.
Tra un po’ se ne andrà.
Spera che lo segua.
Magari ci tenterò,
ma non ho tante speranze.
Quando potrò forse ti
verrò a trovare,
ma per ora accontentati
delle mie parole e cerca
di immaginare il suono
della mia voce.
Ti racconterò tante
favole piccola amica.
Non temere.
Tutte ricche,
belle e cullanti, di eroi
e pazzi, di folletti e di
poesie e di fiori.
Fiabe di streghe e magie,
di amori persi e fantasie.
Ora ti mando un saluto
in dono piccola amica,
e l’ augurio che il cielo
possa seguirti.
Salutami chiunque tu
voglia e parlagli di me
se vorrà ascoltare.
Torno con gioia a salutarti,
e con rispetto a ringraziarti.

...ora guardo dietro di me. Tempo fa pubblicai la SECONDA LETTERA, ecco a voi la prima. Sul silenzio, le parole, le scuse e l' imprese. Tornerò a scrivere più assiduamente i racconti, ma per ora ecco il tutto.

mercoledì, febbraio 18, 2009

sul viaggio, o ciò che pare

SECONDA SENZA NOME (titolo)
Vieni qui con me
alla casa del Diavolo
dove la pioggia non bagna i vetri.
Perditi nelle sue stanze dove
non si sentono le urla.
Vieni alla casa del Diavolo
dove il buio è un fuoco che brucia.
Il Diavolo ride e noi ne siamo
i commensali. Senti.
Tutte le stanze sono specchi,
scegline una e pensa che sia vera,
mentre tutte le lacrime cadranno.
Ci siamo noi qui, dove non ci sono
finestre e non c’ è Sole,
dove ogni porta è un ricordo.
Di fantasia ed aria.
Dove anche la morte sembra
sorridere. Qui.
Vieni alla casa del Diavolo.
Vieni alla casa del Re.

...fra le prime che ho scritto, con i primi avvisi di instabilità. Su ciò che pare. Esiste anche una "PRIMA SENZA NOME", ma è un' altra cosa.

domenica, febbraio 01, 2009

"lascio che le cose passino e mi sfiorino, perché non sono ancora in grado di comprenderle"

La discriminante dimostrazione della propria esistenza arriva fredda, come immaginare il senso di tutto quello che sembra motivare la verità. L' in essenziale idea di noi stessi si manifesta nella nullità di una notte svegli. Allora il percepire è l' unica salvezza, come il correre. Ci si potrebbe domandare la ragione per cui la notte non commette violenza sulla nostra pelle, la ragione di tanto silenzio intorno il suo venire. Farsi sfiorare per sentirsi vivi, per convincersi di essere liberi, per riuscire a credere che l' aria bruciata dai polmoni poi sia vera, dignitosa, come la ragione del nostro essere lì in quel momento, come giustificazione della nostra perpetua presenza sul mondo che ci sembra tremendamente innaturale. Guardare fuori può sembrare troppo, immaginativo, uno splendente sogno. Lontano. Fino al punto di fermarsi e dubitare che sia giusto che le cose arrivino, se sia giusto farsi trovare. Gli occhi sembrerebbero proprio i nostri, mentre tutto quello che ci circonda ci lascia inermi, tremendamente assenti. Quindi ha senso comprendere? La simmetria apparente della nostra immagine presuppone una contro partita, una piccola proiezione di noi stessi nelle persone che ci circondano. Ma non ci sembra giusto. Come guardare da fuori qualcosa standoci nel mezzo, voler vedere la facciata di un grattacielo affacciandosi da una delle sue finestre. Allora il globale non ci serve più, non riusciamo più a crederci, ricercando una piccola risata in una qualunque delle bugie che abbiamo detto. Come l' enorme imbarazzo nello scoprire che quelle bugie non erano bugie. Bastava odiare per sentirsi vivi, bastava regalare il peggio di noi, che se uno può sbagliare può anche vivere ed essere reale. Ma poi il tempo ci insegna che essendo l' unica cosa vera l' odio, è anche la più dignitosa delle terminazioni. Le cose passano, prendendosi gioco del nostro terrore, la paura che tutto possa essere per sempre. Le parole in processione per riempire gli spazi vuoti fra la nostra coscienza e le nostre anime rivelano l' ambizione sporca di esistere, di percepire un dovere nella nostra esistenza, una giustizia piena che ci dia ragione di stare in qualche luogo. L' idea di poter dare uno schema che chiuda tutto in una logica, definendo la sua simmetria come la nostra non ci permette di comprenderle, ne ce ne da il diritto. Quindi lascio che le cose passino, che mi sfiorino per riuscire a guardarle da lontano senza sentirmene partecipe, senza che la stupida arroganza di esserne il motivo di coinvolga. Mi siedo e fermo l' aria, stando attento a dove terminano i miei confini. Chiamandomi per nome, non avrò il coraggio di rispondere. Lascio che le cose passino e mi sfiorino, perché non sono ancora in grado di comprenderle.

venerdì, gennaio 09, 2009

notate bene.....

Allora signori ho dato una sistematina al mio racconto a puntate (un' idea folle). In primis il titolo "Come illudersi di ritornare" che vedrete scritto, in più ogni puntata ha un sotto-titolo, anche quelle vecchie, e le potete trovare tutte sotto l' etichetta "a puntate". Siamo a quota sei, ma finiranno poiché il racconto ha una fine, quindi non saranno infinite, penso di farne una ventina più o meno. Questo è tutto, spero vi piaccia.

un' idea folle-puntata 6 (Come illudersi di ritornare)

Ecco a voi.......

SECONDO INTERMEZZO. SULLA PIOGGIA
D è in piedi, guarda fuori. E' notte ma non dorme, gli sembra normale. Piove, un inaspettato temporale estivo. E' ancora vestito, ed anche questo gli sembra normale. Guarda fuori, la pioggia sulla strada, sulle case. Non vede le cose, non vede niente, solo la pioggia. Il resto non conta, non c' è. Il rumore delle gocce copre tutto, dà senso a tutto. Il cadere, il perdersi della pioggia in quello che ci sta attorno è confortante. Rassicura. Sembra giusto. D resta fermo, non ha bisogno di nulla. Quel cadere pone tutto nella giusta misura. Pensa che tra qualche ora la pioggia smetterà ed il sole invaderà tutte le case. Si convince che non ha senso parlare di motivi, di perché, di ragioni. In quel momento la pioggia è la ragione, è il motivo. Si sente partecipe al posto in cui si trova, al cadere delle gocce, al rumore, al bagnarsi. Esce sul balcone. Si sente meglio. Pensa di stare nell' unico posto in cui deve stare. Lui è lì, e non lo ha scelto. Questo almeno non possono prenderselo. Pensa alla madre, sveglia nell' altra stanza, pensa alla bara, a tutta quella gente in fila. I motivi non hanno senso, non più. Risente le parole della madre, scandite da ogni goccia. Si fa accarezzare dal lieve vento che accompagna il cadere, e comprende. Realizza di aver capito, di aver compreso. Ora accetta, ora sa, ed intanto si lascia cadere la pioggia sul viso. Il viso bagnato lo rende presente, partecipe, legato a tutto il resto. Guarda verso le case, verso le strade, e non sente più il risentimento. Non vede la loro solitudine, vede solo la pioggia che ci balla in mezzo, vede il loro immergersi nelle gocce, nell' acqua. Un posto come un altro. In fondo una notte come altre, questo ora può pensarlo. Attende che il temporale piano cominci a smettere. Resta fermo godendosi le ultime gocce sul viso. Quella pioggia è il suo pianto, lo sfogo di cui aveva bisogno e che la notte ha avuto per lui. Persino la luce che comincia timida a farsi vedere non gli da più troppo fastidio, la comprende, la giustifica, la perdona. Ha perdonato l' estate, il tempo, se stesso. Tutto nella pioggia che come un sorriso un po' triste lo ha coperto. Attende un altro po' prima di rientrare per cambiarsi. Decide che quella camicia non la indosserà mai più e la ripone con cura, senza asciugarla, in un cassetto vuoto.

lunedì, gennaio 05, 2009

ancora una

CANTO SULLA GIUSTIZIA E SULLA ESPIAZIONE(titolo)
Non vi è odio in me
e mi dispiace,
non un filo di vento
ma è tutto calmo.
Solo amaro ed un po’
di bruciore agli occhi.
Ma non mi da niente!
Non mi rimane.
Solo polvere fra le
mani ed addosso.
Dimenticata.
Come le parole,
perse, vuote, lungo la strada.
Persino questo mi
hanno portato.
Il cuore pieno di paglia
senza più spazio.
Tu che credevi di colpire.
Conserva pure tutto
e spendilo per chi verrà.
Il tempo fa giri immensi
ma non ritorna.
Tanto non lo riconoscerei.
Nemmeno il sollievo del
rancore rimarrà fra noi.
Quando crederai di
poter tornare avrai
il tuo riscatto.
Ma non servirà.
Mi volterò per cercare
altro vento.

...le feste sono spesso un periodo di ricordi e di rincontri. Io nel mio ho confermato ciò che sapevo già, che certe cose non si possono riparare e certi amici non si recuperano. Quindi una poesia sulla rinuncia, sul distacco di quando questo distacco è avvenuto. A voi se vi va.

solo un grazie sincero.



Un post breve solo per ringraziare chi con questo premio mi considera libero, cosa che mi rende felice poiché la libertà è la mia ricerca ed ho spesso la pretesa di pensarmi come un uomo libero. Quindi un grazie a Elsa che ha voluto premiarmi.