-Il lato più breve-
Il freddo semplificava un po' le cose, ed era bello anche per questo. Bisognava stare fermi, per meglio sopportare la forza del vento, per meglio opporre il proprio corpo alla pesantezza dell'aria fredda. Decidemmo di non stringerci, non sembrava la cosa più naturale da fare, e non la facemmo. Facevamo finta di ridere, o meglio cercavamo di fingere che quelle risate non fossero amare. Certe cose vanno sempre fatte in una stazione, dove il rumore del treno ti rende scomodo, ti mantiene sempre viva nella mente quella sensazione di non appartenenza a quel luogo, un luogo dove si transita soltanto e dove niente vi appartiene. Che sollievo. L'estraneità è quasi una gioia in giornate come quelle, fredde e limpide come il vetro, lontane come solo l'inverno sa essere. Era già da un po' che non ascoltavo più, il freddo mi sembrava l'unica cosa reale, ed era bene così. In fondo la conoscenza del perché rende tutto senza significato. Di tanto in tanto ridevo, alzavo gli occhi e respiravo forte, lei si fermava a guardare i binari, poi sorrideva ed inseme chinavamo il capo come ad accompagnare la risata. Parlavamo di cose senza senso, senza importanza, bastava dire delle parole, l'importante era solo quello: il suono di ciò che si diceva, non il suo significato. Ci sentivamo giovani, essendo lontani. Avevo fame, ma non lo dissi, me ne vergognai come un bambino, pensai che avrei mangiato meglio da solo, che dopo sarei stato molto meglio solo. Non mi curavo di cosa lei pensasse, non ero lì per lei ne lei era lì per me, eravamo solo dove dovevamo essere, nel freddo che ci teneva uniti, insieme, lontani, sereni. Decisi di non fare domande, di non chiedere niente, nessuna spiegazione, sarebbero state troppo serie ed avrebbero prodotto una discussione troppo seria. In quel momento dare importanza a qualcosa sarebbe stata una condanna, dover ammettere qualcosa una cattiveria inutile, non potevamo sopportarlo, non ne avevamo la forza ne la voglia o l'animo, eravamo vuoti, pieni solo del vento, un vento freddo che voleva quasi giustificare la nostra presenza, non avevamo altri obblighi verso noi stessi ne verso quel luogo, non avevamo altro da fare se non stare lì. Fui stranamente contento che non piovesse, il celo poco nuvoloso mi rasserenava, con la pioggia si sarebbe perso tutto: il freddo, la panchina, i treni e persino il loro rumore; la pioggia avrebbe coperto tutto rendendolo uguale a noi, lo avrebbe riempito come riempiva noi, ci avrebbe fatto appartenere l'un l'altro ed insieme a quel luogo, a quel giorno che non doveva essere di nessuno, tanto meno il nostro. Mi guardava poco, preferiva le rotaie o il celo, tal volta si fermava sulle persone, si voltava solo per sorridere, chinava il viso e si copriva un po' il naso, io restavo fermo guardandola di lato, mi voltavo spesso indietro ma restavo comunque a guardarla. In quel momento avrei desiderato avere il vizio del fumo, una sigaretta fra le dita, il gesto ripetitivo del fumare, l'odore sgradevole, l'accendino che non funzionasse bene. Guardai una donna col cane, piccolo e chiaro, simpatico, la guardammo insieme, provai un po' di nostalgia ma non capii bene perché. Aspettammo che si allontanasse seguendola con lo sguardo, poi ci guardammo senza sorridere. Socchiusi cli occhi ed alzai un po' la testa facendo un lungo respiro, che mi gelò i polmoni, poi le sorrisi. Lei era seria. Ci alzammo ed uscimmo lenti dalla stazione. Quel lungo tratto lo percorremmo mano nella mano.
-Il vertice opposto-
C'erano troppe persone in quella stanza, anche se sembrava quasi non ce ne fosse nessuna. Dal tavolo si alzavano fumi di sigaretta che mi davano un po' fastidio agli occhi, ma feci finta di non badarci, ero l'unico che non fumasse e non mi andava di alzarmi. Bevevo, piano, quasi per ammazzare il tempo, per tenermi occupato mentre guardavo senza vedere la partita che si svolgeva stanca a quel tavolo. Avevo finito di giocare ed era ormai troppo tardi per rientrare. Pazienza, pensai, fra un po' ce ne saremmo andati comunque tutti. Lei si tolse le scarpe lamentandosi, piegò le gambe sulla sedia e comincio a massaggiarsi i piedi. Le sorrisi, lei mi rispose con una smorfia, sorseggiai quello che avevo nel bicchiere.
“Ti farei un massaggio” le dissi, “ma...”
“Lo so, non ti piace toccare i piedi delle persone...figurati.”
Mi sorrise, ma la voce era lontana, o almeno a me sembrava così, che in fondo è la stessa cosa. Finì quello che avevo nel bicchiere e lo posai, di fronte si chiacchierava, ma non mi sembrava interessante. Qualcuno propose di fare un giro in centro, io pensai che camminare in strada col freddo mi avrebbe fatto bene, ma avevo mal di testa e volevo stare da solo. Si parlava di cosa fare, io non risposi, mi sarei defilato e avrei camminato un po'. Lei mi guardò un attimo poi disse
“Non posso camminare, mi fanno troppo male i piedi....”
“Lo so... peccato”
Mi venne in mente un ricordo, di almeno 15 anni prima, un ricordo insignificante, scolorito, che non credevo nemmeno di avere, una cosa stupida di quando ero un ragazzino. È curioso come poi ti vengano in mente certe cose, del perché, se mai ci fosse, in un preciso momento ed una precisa immagine che riaffiora, senza preavviso, senza alcuna volontà, senza nessun legame con quello che stai facendo o vivendo. O forse è quello il gioco, il voler trovare per forza un legame, per forza un perché, senza pensare che forse siccome sono due momenti della tua vita sono legati per forza, sei tu il legame, quello che sei, che dipende sempre da quello che eri in quell'immagine che ricordi. Bisognerebbe solo accettare le cose per quello che sono, che non dipende affatto da quello che siamo noi. Mi sorpresi ad essere lieto per quell'immagine, ad essere divertito dal ricordare persone che non vedevo più, né avrei mai più rivisto in seguito. Le cose vecchie della vita a volte sembrano oggetti da mettere su di un tavolino, certamente inutili, ma è come se ne sentissi la mancanza quasi senza saperlo. Non volli dare nessun significato a quel ricordo, in fondo non ne hanno mai, né quando nascono né quando rivengono alla mente. Il tempo non ci appartiene affatto, non possiamo capirlo, non possiamo dominarlo, non possiamo accettarlo. In questo i ricordi sono una truffa, un espediente per credere in qualcosa, in quello che siamo stati, per convincerci che c'eravamo da qualche parte, che ne valeva la pena. Ma non è vero, i ricordi non sono mai sinceri, sono l'aspetto delle cose che ci piace vedere. Il più delle volte sono una consolazione, ed è il massimo che possiamo sperare. Il mal di testa mi distraeva, cominciava a farsi troppo insistente, il dolore mi innervosiva e cominciavo ad essere impaziente. Dovevo fare qualcosa che mi aiutasse a dimenticare quel dolore, e non c'era niente in quella stanza che sembrava fare al caso mio, anzi tutte quelle presenze quasi amplificavano il mio nervosismo, ovattavano l'aria e la facevano pesante. Mi alzai tentando di mantenere un'aria indifferente per nascondere il dolore, lei mi guardò e comprese tutto. Si alzò senza mettersi le scarpe e mi venne dietro nella stanza, mi porse un bicchiere pieno per metà con un sorriso, fui contento ed un po' mi rasserenò. Sorseggiai lentamente, lei mi rimase di fronte con un sorriso lieve, luminoso, bello come una carezza, come una mano calda. Mi sentii meglio e le fui grato. Posai il bicchiere e presi la giacca, la guardai per un po', poi le baciai la fronte carezzandole i capelli, salutai tutti e scesi in strada. Il freddo mi faceva bene, il silenzio dell'ora tarda fu un sollievo. Camminai per un bel po' prima di decidere dove andare. Mi fermai e mi appoggiai ad un lampione, presi il cellulare e scorsi la rubrica con calma. Chiamai un vecchio amico che da giorni mi ero ripromesso di sentire. Gli raccontai molte cose, poi ripresi a camminare.
-Il terzo lato-
Si termina sempre in una stazione. L'aria non era neanche troppo fredda. Avevo il desiderio di toccarla con la punta delle dita, le mie dita calde ed il suo viso un po' freddo, ma me ne vergognai e non lo feci. Lei forse lo capì ma non fece niente. Il malessere è come una bugia alla quale non riusciamo a credere, il ricordo costante di ciò che in qualche modo abbiamo perso. Ha la stessa natura del tempo e non è vero che passa, spesso ci si abitua soltanto. E lo si ripone in disparte, proprio come un ricordo, tanto che col tempo ne dimentichiamo persino il perché, ci rimane solo quel piccolo sentimento, come uno spillo nella pelle. Io rimasi con le mani strette in tasca, quasi a volermi reggere a quello spillo, a volermi aggrappare a quel malessere al quale mi ero abituato già da troppo. Non ebbi la forza di tirarle fuori. Forse avrei preferito non dover parlare, rimanere in balia dei rumori delle altre persone e guadarla, guardarmi mentre la guardavo, guardarla mentre mi guardava. Guardarla per il solo gusto di tenerla negli occhi, per come la vedevo limpida e bella mentre mi sorrideva, per riuscire a credere che era lì perché c'ero io così come io ero lì perché c'era lei. Mi sarebbe bastato, almeno per un po', e forse sarebbe bastato anche a lei. Ma non ne fui in grado, non riuscii a farmelo bastare, a spegnere il pensiero come sapeva fare lei. Peccato. Come sono crudeli a volte le parole, con la loro verità, il loro peso sui nostri volti, le espressioni, a voler spiegare chi siamo, tolgono il respiro agli occhi, al guardare, al silenzio che spesso ci consola. Parlammo per un po' di cose futili, come se fosse normale. Ridevamo leggeri, o almeno sembrava, ma non c'era differenza, non per noi. Cercavo di non avere ricordi, volevo riempirmi solo di quella stazione, di quei rumori, delle persone che andavano e venivano, delle parole leggere che dicevamo, dei sorrisi, di lei che si toccava il naso, dei suoi capelli, di me che mi lisciavo la barba. Che cosa stupida in fondo. Come se tutto potesse poi servire a qualcosa, tutte quelle parole che ci saremmo detti, alle quali poi avremmo creduto, tutti i miei pensieri, le sue spiegazioni, le mie reazioni ed i suoi sorrisi. In quel momento avrei voluto saper credere, smettere di capire e credere, solo quello, senza pensieri o ragioni, senza domande, solo credere. Mi guardai le mani, lo feci senza pensarci, osservai i palmi aperti e gli anelli, la linea delle dita e le unghie un po' lunghe, le linee della pelle. Tutta la mia sicurezza in quelle mani, nelle mie dita, nelle mie unghie. Richiusi i palmi lentamente e le rimisi in tasca, lei mi stava guardando forse un po' incuriosita e con un sorriso flebile negli occhi. Non riuscii a sorriderle. Ci raggiunse una voce alle spalle, una vecchia amica, più sua che mia. Allegra ci venne incontro salutandoci, si abbracciarono, io la salutai con un cenno ed un sorriso. Parlavano e ridevano, intanto cominciammo a fare qualche passo. Io mi tenni un po' indietro per guardarle meglio, per guardare lei mentre chiacchierava di cose che non mi riguardavano. Lei che rideva. Volevo tenerla il più possibile negli occhi, nello sguardo, volevo vederla. Mi sentii un po' solo, e fu un sollievo, come un lungo respiro, guardarle da lontano. Mi guardai intorno, mi venne in mente una vecchia canzone che canticchiai, avrei voluto sentirla nell'aria. Ma mi accontentai di ricordarla. Continuai a stringere le mani in tasca mentre camminavamo, lei si voltava di tanto in tanto per vedermi qualche passo dietro di loro. Un po' mi mancava il freddo dei giorni passati, il vento. Si fermarono, si dissero qualcosa e la nostra amica mi guardò pronunciando un “va bene”. Mi sorrise ed io la salutai raggiungendole, si baciarono. Restammo di nuovo noi due. Ci avviammo verso l'uscita della stazione, lei mi prese sotto braccio abbassò la testa in un gesto di confidenza e mi disse ridendo
“Ho quasi avuto paura che non se ne andasse più”.
Ridemmo insieme. Ci fermammo indecisi su cosa fare, lei si voltò e disse
“Camminiamo un po'?”.
Annuii e ci avviammo, lasciai a lei il compito di decidere dove andare, tanto per me non faceva differenza, in realtà camminare un po' mi scocciava, ma era un ottimo modo per evitare la gente intorno, per sentirci come se fossimo soli. E poi la distrazione di compiere un gesto mi era necessaria, e forse era necessaria anche a lei. Camminammo, come voleva lei. Per fortuna erano le sei di sera ed il sole era già calato da un bel po'. Almeno il buio mi rianimava un po', il sole sarebbe stato insopportabile, con la sua luce. Lei si raccolse i molti capelli tenendoli fermi con una matita. Come era bella in quel gesto, mi dava sollievo, li raccoglieva tutti tenendoli alzati sopra la nuca e scoprendo il collo, ed era chiara come una luce mentre lo faceva, limpida come la calma. La guardai e decisi che quello sarebbe stato il mio ricordo, la sua bellezza sarebbe stata la mia consolazione. Mi sentii meglio. Mi guardò abbassando un po' la fronte, poi mi chiese tirando un sospiro
“Perché?”.
Io abbassai il viso per qualche secondo, poi tentai di risponderle mentre riprendemmo a camminare. Le raccontai il tempo trascorso, le raccontai dello spillo che avevo nella pelle, del mio malessere, delle mie idee, le delusioni, le cose accadute, quelle perse, le raccontai di quei giorni in cui lei ancora non c'era, di quei giorni in cui forse non c'ero nemmeno io. Poi le dissi anche dei giorni in cui lei arrivò. Di tutte quelle cose che non capii, di quelle che credevo di aver capito. Le dissi delle persone che avevo conosciuto e di quelle che stavo conoscendo. Avrei voluto dirle il perché di molte cose, ma non lo trovai e fui sincero. Tentai di farle vedere le mie parole, di farle vedere lei stessa, me stesso, quella sera e le altre trascorse. Le parlai delle cose che sapevo e di quelle che non sapevo. Lei mi ascoltava guardando la strada, talvolta si voltava verso di me. Io tentavo di guardarla il più possibile. Si toccava spesso il naso con la punta delle dita, mi piaceva quel gesto, mi piaceva come lo faceva, quasi senza accorgersene, mi piaceva guardarla mentre lo faceva. Era rassicurante, bella, quieta. Incrociammo gli sguardi proprio mentre lo faceva, scoppiammo a ridere. Fu come un grosso respiro si sollievo. Si rifece seria in un attimo, mi raccontò anche lei di alcuni suoi giorni, di una cosa accaduta, di lei nei giorni in cui non c'ero. Io volevo solo capire, poi il resto, credevo, sarebbe venuto da sé. Non avevo certezze e non cercavo conferme, questo almeno era già qualcosa.
“Andiamo di qui, ho bisogno di fumare” mi disse.
Ci fermammo vicino ad un muretto, io mi sedetti, lei mi rimase di fronte. Si accese una sigaretta. Non mi piaceva vederla fumare, ma non ci feci caso. Aveva gli occhi bassi, forse cercava qualcosa da dire. Io la guardavo fisso, ebbi l'istinto di carezzarle i capelli, ma mi trattenni e non so nemmeno perché. Lei salutò un amico che passava in quel momento, scambiarono qualche battuta. Tornata da me le dissi “Rassicurami”.
Lo dissi ridendo, come uno scherzo, ma in fondo ci speravo. Speravo in un gesto o in una parola che rendesse tutto chiaro. Speravo in qualcosa che mi togliesse il peso della comprensione. Lei mi guardò seria, buttò la sigaretta rispondendo che non sapeva come fare. Anche lei aveva il suo malessere, il suo spillo, io lo sapevo e non potevo aspettarmi niente, né tanto meno me l'aspettavo. Non c'era niente da aspettarsi, lo sapevamo tutti e due. L'unica cosa che le chiesi fu di non nascondersi, non mentirmi, così come io non mi nascosi, era l'unica certezza che avevo, l'unica che volevo avere. Forse era tutto lì. Forse percorrevamo lati diversi, che si sarebbero incontrati chi sa dove, o forse no. Non lo sapevamo. Cominciammo a camminare, questa volta fummo più vicini, ci guardavamo. Io alzai la testa, pensai che alla fine era tutto lì il senso, in quella strada. Avrei voluto sapere dove eravamo, ma forse non importa, non più almeno. Ci fermammo, le presi la mano e le dissi con un po' d'imbarazzo
“Forse ho bisogno di una persona come te nella mia vita...”
“Si, forse si”.
Mi strinse il braccio al collo e mi diede un bacio sulla guancia. Mi disse con il viso ancora appoggiato al mio
“Devo andare scusa....”.
Mi sorrise un po' amara, io la guardai entrare nel portone qualche metro più in là. Mi guardai la mano prima di incamminarmi pensando a cosa mi fosse servita quella sera, mi domandai se in qualche modo avessi trovato le risposte in cui speravo. Mi risposi che non lo sapevo. Mi rimisi la mano in tasca e mi avviai.
(postilla: ho pensato, perché scrivere di qualcuno è un dono infinito che spesso non si riesce ad apprezzare. E' come immergere quel qualcuno nella luce del ricordo, nella gioia che si ha nel rivivere quel momento che si è scritto, dove tutto non può essere che migliore, migliore persino di noi che scriviamo. Pur essendo la verità, è pur sempre qualcosa di scritto.)